“Il modo migliore di prevedere il futuro è inventarlo.”
Una frase che abbiamo sentito ripetere tante volte, ma che raramente è sembrata così vera come oggi.
Le aziende si muovono in un contesto in cui il lungo termine sembra essersi dissolto. Non perché non sia più importante, ma perché diventa sempre più difficile — se non impossibile — attribuirgli una forma stabile. Geopolitica, tecnologia, crisi sanitarie, catene di fornitura, aspettative sociali: ogni elemento si muove troppo velocemente per permettere piani che guardino avanti cinque o dieci anni senza diventare rapidamente obsoleti.
Così il lungo termine si è fatto “leggero”, quasi insostenibile. Le imprese continuano a citarlo, nei bilanci di sostenibilità o nelle dichiarazioni di principio, ma spesso si comportano come se non esistesse davvero. La priorità si concentra sul breve, sull’immediato, sull’utile di trimestre e sull’emergenza quotidiana. Una tensione costante che rischia di svuotare di significato concetti come creazione di valore, resilienza e responsabilità.
Eppure, rinunciare al lungo termine non è un’opzione. La leggerezza di oggi è un’illusione: dietro la volatilità dei mercati, delle regole e delle tecnologie resta la necessità di una rotta. Il futuro non si prevede con calcoli perfetti, ma si costruisce con scelte coraggiose. Inventarlo, appunto.
Forse il vero compito del management contemporaneo non è redigere piani quinquennali che nessuno leggerà più tra sei mesi, ma coltivare la capacità di visione: quella che permette di dare coerenza alle decisioni di oggi anche quando il contesto cambia. Non più il lungo termine come prigione di scenari rigidi, ma come bussola: un orizzonte da inventare e reinventare, con la consapevolezza che la resilienza non è resistere all’imprevisto, ma trasformarlo in parte della propria traiettoria.
L’insostenibile leggerezza del lungo termine, allora, può diventare sostenibile solo se accettiamo che non è scritto da nessuna parte. Tocca a noi, giorno dopo giorno, dargli forma.