Cosa significa davvero “fare la cosa giusta” nel mondo del business globale, dove le regole cambiano da Paese a Paese, le pressioni commerciali sono intese e la concorrenza impone risultati immediati? Secondo Richard Bistrong, CEO di Front-Line Anti-Bribery LLC, autore e speaker riconosciuto a livello internazionale sui temi dell’etica aziendale, il vero rischio etico oggi non nasce sempre da un’intenzione deliberata di violare la legge, ma da qualcosa di più subdolo: l’illusione di agire per il bene superiore e nell’interesse dell’azienda.
“Il problema non sono solo le persone che infrangono le regole per guadagno personale”, spiega Bistrong a ComplianceDesign.it. “Molti dei comportamenti a rischio che vedo oggi nelle aziende vengono da persone convinte di agire nel miglior interesse dell’organizzazione. Ed è proprio questo ad essere più pericoloso, perché rende più difficile riconoscere il problema e affrontarlo. È una mentalità, più che un obiettivo distorto”.

Martedì, 21 ottobre ore 17:00 Spazio Wellio, Via Dante 7, Milano
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La sua è una prospettiva rara: dopo una carriera nella vendita internazionale di prodotti per la difesa, conclusasi con una condanna per corruzione transnazionale, Bistrong ha scelto di trasformare la sua esperienza in un percorso di riforma. Oggi aiuta le aziende a navigare nella complessità reale dell’etica e della compliance.
“Lo slogan ‘Fare la cosa giusta’ sta benissimo su un poster in ufficio”, dice. “Ma cosa significa davvero quando ti trovi in Sud America, nel Golfo o in Asia Centrale e sei sotto pressione per chiudere un contratto? Le aziende devono aiutare le persone a orientarsi nella complessità. Non basta dire: fai la cosa giusta. Non è un problema – né una soluzione – valida per tutti”.
Il paradosso della “slippery slope”
Uno dei concetti centrali di Bistrong è quello del slippery slope (china scivolosa): la normalizzazione graduale di decisioni sempre più rischiose. “La prima volta che prendi una scorciatoia, potresti giustificarla con l’urgenza o la pressione. Se non succede nulla, e nessuno ti ferma o ti fa domande, potresti rifarlo, basandoti su quella precedente cattiva decisione. E se non stiamo attenti, alla fine diventa la tua normalità”.
Questo meccanismo progressivo di auto-giustificazione è particolarmente insidioso perché i sistemi tradizionali di controllo raramente lo intercettano. “Il vero pericolo non è solo l’infrazione in sé, ma l’assenza di dialogo intorno ad essa. Se non c’è spazio per fermarsi, riflettere e chiedersi: ‘Aspetta un attimo, sono sicuro di questa situazione? Siamo ancora sulla strada giusta?’, allora il rischio diventa sistemico”. Bistrong insiste sull’importanza di creare lo spazio per quello che definisce un “ethical speed bump” (dosso etico), anche – o soprattutto – dopo aver compiuto un errore.
“La slippery slope non è inevitabile, se riusciamo a creare un ambiente dove le persone si sentano a proprio agio nel sollevare dubbi, perché sanno che verranno ascoltate e non giudicate”.
Il ruolo chiave del middle management
Se i vertici aziendali definiscono valori e principi e la funzione compliance scrive politiche e codici di condotta, chi collega i due livelli? Per Bistrong, la risposta è netta: il management intermedio. “I manager intermedi sono il perno tra strategia e operatività. Sono il primo punto di contatto per i team. Quando qualcuno ha un dubbio, non chiama il Chief Compliance Officer. Chiama il proprio responsabile diretto”.
È per questo che, secondo lui, proprio a questo livello deve avvenire la formazione più importante. “I manager devono saper riconoscere le situazioni ambigue, affrontarle e aiutare i team a gestirle. Ma devono anche essere messi nelle condizioni di farlo: serve tempo, strumenti, supporto”. Altrimenti, dice Bistrong, si rischia il cosiddetto “middle frozen layer”, quella zona congelata in cui il tono dei vertici si perde e viene sostituito da ciò che i team percepiscono come “le esigenze della crescita del business”, anche a costo di aggirare le regole. “Se il middle management non è coinvolto, l’etica e la compliance rischiano di essere percepite come responsabilità di una funzione di supporto, non parte del messaggio aziendale. E quando i messaggi etici e commerciali sono allineati, nessuno si sentirà, come è capitato a me, intrappolato tra due narrazioni aziendali in conflitto: la pressione a ottenere risultati e quella a rispettare le regole”.
Ascoltare prima di parlare: il feedback proattivo
Per Bistrong, una cultura dell’integrità si costruisce non solo su regole e controlli, ma sull’ascolto e sulla vicinanza. “Serve un ciclo continuo di ascolto e dialogo. Non possiamo aspettare che le persone vengano a dirci che c’è un problema. Dobbiamo comunicare in modo intenzionale e proattivo, facendo domande aperte come: ‘Come possiamo supportarti meglio? Ci sono rischi emergenti che dovremmo considerare? Hai affrontato sfide etiche su cui possiamo aiutarti?’”.
Un approccio reattivo, secondo lui, non funziona più. “Quando le persone sentono che nessuno le ascolta, smettono di parlare. E quando il silenzio diventa la norma, i rischi aumentano”. È lì che emergono quelli che Bistrong chiama open secrets: “Le cose che tutti sanno, ma di cui nessuno parla”.
Per questo, bisogna ripensare il concetto stesso di speak up. “Oggi diciamo spesso: se vedi qualcosa, dillo. Ma perché qualcuno dovrebbe parlare se non si fida del fatto che sarà ascoltato o protetto?”. E perché tutta la responsabilità deve ricadere su chi parla? “Possiamo avere policy di ‘porte aperte’ e messaggi forti a favore della segnalazione, ma come facciamo a far sì che le persone si sentano davvero al sicuro nel ‘varcare quella porta’ e nel condividere le proprie preoccupazioni?”.
Bistrong cita spesso il libro Speak Out, Listen Up di Megan Reitz e John Higgins: “Non si tratta solo di fornire una linea telefonica per le segnalazioni. Si tratta di essere pronti ad ascoltare e a chiedere feedback, anche quando è scomodo. E questo richiede coraggio e disciplina”. Dobbiamo creare quello spazio sicuro.
Navigare nelle zone grigie: la nuova missione della compliance
Un altro errore comune, secondo Bistrong, è pensare alla compliance come a un sistema binario: legale da un lato, illegale dall’altro. Ma il mondo reale è pieno di zone grigie. “Non tutto è chiaro. Esistono contesti e situazioni in cui le regole sono ambigue, o in cui certe interazioni rendono sfumato il confine tra ciò che è consentito e ciò che è una violazione”.
È proprio qui che si gioca il vero valore della compliance. Bistrong ricorda ai team che l’obiettivo dell’etica e della conformità “non è prendere decisioni al posto delle persone, ma aiutarle a fare scelte migliori e più informate. Ecco perché dobbiamo spiegare il perché delle regole, non solo la regola in sé. Una procedura percepita come non rilevante per il proprio lavoro è una procedura destinata a fallire”. In fondo, “non si tratta solo di policy e procedure: si tratta di persone, comunità e della società nel suo insieme. Se vogliamo decisioni etiche, dobbiamo creare strutture che le rendano possibili, così che ‘fare la cosa giusta’ diventi una parte naturale, accettata e condivisa del lavoro. In quel momento, compliance ed etica non sono più viste come un ostacolo al successo, ma come partner per un successo sostenibile”. Così come un tempo, lui stesso non le vedeva.
E aggiunge: “Questo è un percorso, non una destinazione. Dire che siamo al 100% etici è di per sé poco etico. Dobbiamo riconoscere che tutti commettiamo errori, e se li portiamo alla luce, invece di nasconderli, possiamo imparare e ridurre le probabilità che accadano di nuovo. Mi piace la direzione in cui ci stiamo muovendo, e il fatto che leader commerciali e della compliance stiano lavorando insieme, così che nessuno si senta solo quando affronta un dilemma etico”.