Sono la responsabile anticorruzione di una grande azienda e… ho il mondo contro.
Nel mio ruolo, dovrei essere la custode del rispetto delle regole, la garante dell’integrità aziendale, l’alleata strategica di chiunque abbia a cuore la sostenibilità e la reputazione dell’impresa. Eppure, troppo spesso, mi trovo isolata, in una posizione che sembra attirare ostilità da ogni lato.
L’amministratore delegato e il presidente mi percepiscono come una funzione “di serie B”, un costo inevitabile più che una risorsa strategica. Durante i comitati direttivi, quando prendo la parola, incrocio sguardi distratti o noto gesti di impazienza. L’anticorruzione viene vista come una fastidiosa gabbia di regole che ostacola il business o, nel migliore dei casi, come un obbligo burocratico da adempiere con il minimo sforzo.
Anche i membri del Consiglio di Amministrazione, che dovrebbero essere i primi sostenitori di una governance trasparente, spesso mostrano un atteggiamento distaccato. Si limitano al minimo indispensabile, trattando l’anticorruzione come un fastidioso obbligo formale per evitare sanzioni personali, senza mai coglierne il valore strategico o etico.
Persino chi, almeno in teoria, dovrebbe considerarmi un’alleata, tende a vedermi come un peso. I manager operativi mi percepiscono come “quella che non comprende le vere dinamiche aziendali”. Quando provo a spiegare che certe scorciatoie potrebbero portare a conseguenze devastanti – legali e reputazionali – vengo liquidata con uno sguardo che sembra dire: tu non capisci le pressioni di chi è in prima linea.
Anche gli organismi di controllo, che dovrebbero garantire una gestione trasparente e collaborativa, spesso complicano ulteriormente le cose. Nascondendosi dietro il principio di autonomia e indipendenza, adottano un approccio a silos che frammenta le responsabilità e ostacola lo sviluppo di modelli partecipativi basati sulla cooperazione. Questo atteggiamento non solo rallenta i processi decisionali, ma mina anche la costruzione di una cultura aziendale condivisa.
La realtà è che mi sento sola. Sola in un percorso che, in teoria, dovrebbe essere condiviso da tutti. Il rispetto delle regole non è un ostacolo al successo: è una condizione necessaria per costruire un business solido, sostenibile e rispettato.
Eppure, sono circondata da un mondo che mi considera un intralcio o, nella migliore delle ipotesi, un accessorio inutile. Un mondo che fatica a comprendere che il rispetto delle regole non frena il business, ma accelera la fiducia, sia interna che esterna.
Nonostante tutto, non mollo. So che il mio ruolo è fondamentale. Anche se nessuno lo dice apertamente, so che molte persone in azienda si sentono più sicure sapendo che c’è qualcuno che vigila sull’integrità dell’impresa. Credo fermamente che le regole, se applicate con intelligenza e buon senso, non siano un ostacolo, ma il più grande alleato del business.
Per andare avanti, però, chi ricopre questo ruolo ha bisogno di una cosa fondamentale: supporto. Non servono applausi o riconoscimenti pubblici, ma la consapevolezza, da parte di chi guida le aziende e le istituzioni, che l’anticorruzione non è un costo, bensì un investimento strategico.
Perché senza integrità non esiste futuro. E senza chi la difende, il “mondo contro” potrebbe trascinare tutti verso il baratro.