C’è un equivoco che persiste ai vertici di molte aziende.
Un’illusione sottile, ma radicata: che l’integrità sia implicita, innata, automatica.
Che venga da sé.
È un errore di prospettiva.
Molti manager credono che basti essere “professionisti seri” per garantire comportamenti corretti. Che basti il buon senso, o la reputazione.
Non è così.
L’integrità non nasce con la carica.
Non è scritta nel titolo di AD o presidente.
L’integrità va costruita, protetta, sostenuta. Ogni giorno.
E questo richiede risorse.
Perché l’integrità costa.
Costa in formazione, in comunicazione, in competenze specifiche.
Costa in strutture che funzionano davvero, non solo sulla carta.
Costa perché impone di affrontare conflitti, correggere deviazioni, dire no anche quando sarebbe più facile dire sì.
Eppure, quando si rivedono i budget, la frase è sempre la stessa:
“Tagliamo tutto, tranne la sicurezza. Quella non si tocca.”
Ma è qui che l’inconsapevolezza si fa incosciente.
Perché la sicurezza senza integrità non esiste.
Se non c’è un sistema sano, un contesto che protegge la parola libera e scoraggia il silenzio complice, allora la sicurezza è solo apparenza.
Un foglio firmato. Un corso obbligatorio.
L’integrità è la condizione che rende tutto il resto credibile.
Compresa la sicurezza.
Per questo il compliance officer deve avere lo stesso peso degli altri top manager.
Non ai margini, ma dentro al motore decisionale.
I consigli di amministrazione devono prenderne atto: l’integrità va trattata come una priorità strategica. Non è un’opzione morale. È un presidio organizzativo.
Sì, l’integrità costa.
Ma ignorarne il costo, oggi, è il rischio più alto che un’impresa possa correre.
R.I.T.A.