“Se vedi uno scarafaggio, sai che non è mai solo.”
Con questa frase il Financial Times ha raccontato la nuova ondata di frodi bancarie che stanno emergendo tra Europa e Stati Uniti. L’ultimo caso riguarda BNP Paribas, colpita da un ammanco di 190 milioni di euro legato a una frode nei finanziamenti commerciali.
Non un episodio isolato, ma – come osserva il giornale londinese – un possibile segnale di una “nuova infestazione” nel sistema finanziario.
La metafora degli scarafaggi, resa celebre da Jamie Dimon (JPMorgan), descrive bene il rischio sistemico della frode: quando un caso emerge, è probabile che altri si nascondano appena oltre la superficie. E se fino a ieri si trattava di episodi circoscritti, oggi il fenomeno sembra assumere una dimensione globale, alimentato da un contesto di pressione, opportunità e razionalizzazione — i tre vertici del celebre “fraud triangle” formulato dal criminologo Donald Cressey negli anni Cinquanta.
Quando questi tre elementi coincidono, la frode diventa possibile: la pressione economica o personale spinge a “fare i numeri” a ogni costo; l’opportunità nasce da sistemi di controllo deboli o da catene decisionali opache; la razionalizzazione giustifica l’atto, trasformando l’abuso in necessità o normalità.
Il triangolo delle frodi non racconta il gesto di chi sbaglia, ma l’ambiente che lo rende possibile. E in quell’ambiente, la distanza tra etica e convenienza si assottiglia pericolosamente.
Pochi giorni dopo, anche il New York Times è tornato sulla stessa immagine nel suo editoriale “How Bad Is Finance’s Cockroach Problem? We Are About to Find Out”, osservando che forse le riforme nate dopo la crisi del 2008 non hanno risolto il problema, ma solo spostato il punto d’impatto. Laddove il FT mette in luce i casi, il NYT allarga la prospettiva: le regole hanno irrobustito le banche, ma hanno lasciato crescere nell’ombra un sistema parallelo, più opaco e meno regolato.
La coincidenza tra due voci autorevoli della stampa internazionale non è casuale.
Là dove l’etica e la trasparenza stanno diventando parte del racconto economico, in Italia la buona governance continua a non fare notizia. Le cronache aprono solo quando qualcosa si rompe, ma non raccontano mai chi lavora per evitarlo. È come se la compliance esistesse solo come reazione, mai come progettazione.
Eppure, l’Italia è tra i Paesi che più contribuiscono alla costruzione della buona governance internazionale. Lo dimostrano i casi d’impresa, i tavoli di diplomazia giuridica e i programmi accademici italiani citati nei paper del Business at OECD (BIAC) e del B20, e i ruoli di leadership che il nostro Paese ricopre nei comitati e nelle task force internazionali dedicate a integrità, sostenibilità e condotta responsabile.
Un esempio di diplomazia giuridica e industriale che rafforza la credibilità dell’Italia nei consessi multilaterali, anche se raramente trova spazio nella narrazione pubblica.
Finché la buona governance resterà invisibile, continueremo a confondere la trasparenza con la burocrazia e l’etica con la facciata. In un Paese dove la notizia arriva solo quando qualcosa si rompe, la vera innovazione sarebbe raccontare chi ogni giorno lavora per non farla rompere.
Perché forse la sfida non è eliminare gli scarafaggi, ma ridisegnare le condizioni che li attirano. E finché la buona governance resterà invisibile, continueremo a scambiare la trasparenza per ingenuità e l’opacità per forza.

