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You Can Culture: come costruire (e difendere) una cultura organizzativa sana. Intervista a Tobias Sturesson

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L’attenzione alla performance e alla reputazione può spesso far trascurare la reale salute di una cultura organizzativa. Eppure, i sintomi di un ambiente tossico emergono prima o poi: conflitti interni, demotivazione, silenzi, comportamenti disfunzionali. Il risultato? Si danneggia la fiducia dei clienti e dei collaboratori, compromettendo la capacità di raggiungere obiettivi strategici.

Nel suo bestseller “You Can Culture”, Tobias Sturesson – consulente specializzato in tematiche di leadership e cultura organizzativa – offre un metodo concreto per riportare la cultura aziendale al centro. Lo fa individuando quattro abitudini fondamentali che i leader dovrebbero coltivare per promuovere un ambiente di lavoro sano e responsabile. ComplianceDesign.it incontrato l’autore per capire la sua visione.

La storia di Tobias Sturesson e il suo libro offrono uno spunto importante a chiunque gestisca un team, un dipartimento o un’intera organizzazione. La cultura non è un progetto “una tantum”, ma una serie di segnali, comportamenti e rituali che si ripetono quotidianamente. Imparare a riconoscere le vulnerabilità, chiarire e incarnare i valori, ascoltare attivamente e integrare l’integrità nei processi operativi: questi i quattro pilastri che, secondo Sturesson, possono garantire non solo il successo di un’impresa, ma anche un impatto sociale e ambientale positivo.

Attraverso umiltà, coraggio e trasparenza, un leader può non solo prevenire crisi aziendali e danni reputazionali, ma soprattutto creare un ambiente in cui la fiducia e l’innovazione prosperano. E come sottolinea l’autore, “la differenza la fanno le abitudini di ogni giorno”. Un messaggio decisamente attuale per ogni realtà che aspiri a lasciare un’impronta costruttiva, dentro e fuori l’organizzazione.

Come la sua esperienza personale ha influenzato la visione sulla cultura organizzativa?

Tobias Sturesson

Nel libro inizio raccontando la mia storia personale: sono cresciuto in una comunità cristiana che si è trasformata in una vera e propria setta. L’ambiente è diventato tossico, con una leadership distruttiva. La situazione è diventata così grave che mia madre ha tentato più volte il suicidio. A posteriori, mi sono chiesto come un gruppo con un’apparente “missione nobile” sia potuto diventare così dannoso. Ma, soprattutto, ho realizzato di esserne stato complice: anche se ero giovane e cresciuto in quel contesto, avevo delle responsabilità morali per ciò che facevo.

Questa vicenda estrema mi ha portato a studiare a fondo come organizzazioni di vario tipo — aziende, ONG, istituzioni pubbliche — possano imboccare strade pericolose senza neanche rendersene conto, trascinate da aspetti culturali negativi o da leadership sbagliate. Ho visto dinamiche simili in molti contesti, sebbene in forme meno estreme. Queste storie mi hanno reso ancora più convinto dell’importanza di una cultura organizzativa sana e di una leadership consapevole, capaci di prevenire derive tossiche e di mantenere i valori aziendali al centro.

Nel libro descrive quattro abitudini” fondamentali per i leader: Get Humble, Get Clear, Get Listening, Get Integrity. Qual è il loro significato e quale ritiene la più difficile da mettere in pratica?

Nel libro parlo di quattro abitudini trasformative per la leadership:

  1. Get Humble – Essere umili vuol dire riconoscere di essere vulnerabili e fallibili, come individui e come organizzazione. Spesso le aziende dichiarano grandi valori (“Siamo anti-corruzione”, “Puntiamo all’etica”), salvo poi tradirli a causa di un’eccessiva sicurezza o di meccanismi di difesa. L’umiltà comporta l’invito ad ascoltare e interpretare correttamente i “segnali deboli”, invece di cercare sempre il “capro espiatorio”.
  2. Get Clear – Chiarire la propria visione e i propri valori, facendoli valere anche quando comportano un costo o dei sacrifici. Non devono essere mere dichiarazioni di principio, ma riferimenti concreti al comportamento quotidiano. Se i valori aziendali non sono contestualizzati e non “costano” nulla, rischiano di rimanere solo parole. È fondamentale, inoltre, celebrare i comportamenti positivi e, allo stesso tempo, intervenire quando si verificano azioni contrarie ai valori, senza aspettare che le situazioni degenerino.
  3. Get Listening – Ascoltare in modo proattivo e incoraggiare il “speak-up”. Troppe aziende si limitano ad attivare canali di segnalazione (whistleblowing), senza creare le condizioni per un dialogo aperto e sincero. Se un team leader o un manager scoraggia critiche e feedback, la conseguenza è il silenzio. Per invertire la rotta bisogna sollecitare attivamente le opinioni, creare momenti di conversazione coraggiosa, allenare le persone a parlare apertamente anche quando emergono dilemmi di natura etica.
  4. Get Integrity – Integrare i valori nelle storie, nei rituali e nei processi quotidiani dell’organizzazione. Le storie su “eroi” e “cattivi” in azienda plasmano il nostro modo di vedere i comportamenti giusti o sbagliati. I rituali, come riunioni periodiche in cui si riflette sui valori, mantengono vivo l’impegno. I processi e gli incentivi (compresi quelli economici) devono essere coerenti con i valori dichiarati. Altrimenti, il rischio di contraddizioni e ipocrisie è altissimo.

In quanto alla più difficile da applicare, direi che l’umiltà (Get Humble) è forse la più ostica: implica ammettere le proprie vulnerabilità e responsabilità, un passo non sempre facile per chi gestisce un’azienda o un grande team.”

In caso di scandalo pubblico o crisi reputazionale, cosa dovrebbe fare per prima cosa un leader per ricostruire la fiducia nel team?

È un tema delicato. Da un lato ci sono aspetti legali da gestire, ma d’altro canto è indispensabile un approccio fondato sull’umiltà e sulla presa di responsabilità. Ho collaborato con aziende che, dopo una crisi, si sono rese disponibili a un lungo lavoro di introspezione: hanno cercato di capire perché non avessero visto i segnali in tempo e come si fosse creata una cultura del silenzio.

Ciò che serve è una sincera confessione dell’errore, diretta a colleghi, clienti, stakeholder. Non basta dire “Siamo spiacenti, non succederà più”. Bisogna spiegare perché è successo, quali aspetti della leadership e della cultura aziendale erano distorti, quali meccanismi di controllo erano carenti, e come si intende rimediare. Paradossalmente, se questa presa di responsabilità è fatta con trasparenza e coerenza, la fiducia può perfino aumentare rispetto a prima, come sostengono diversi studi, inclusi quelli della prof.ssa Sandra Sucher di Harvard.

Una cultura del lavoro sana può influire positivamente non solo sulle persone, ma anche sul pianeta?

Assolutamente sì. Nel mio libro definisco la cultura organizzativa sana come quella che garantisce tre risultati: favorisce il successo dell’azienda, tutela il benessere delle persone e produce un impatto etico-responsabile sul mondo esterno.

Se in un’organizzazione si incoraggiano le persone ad agire in base ai valori, esse tenderanno a valutare anche le conseguenze più ampie delle proprie scelte: dall’uso responsabile dell’intelligenza artificiale alla riduzione dell’impronta ambientale, passando per il rispetto dei diritti umani nelle catene di fornitura. Al contrario, dove vige una cultura votata al mero profitto, si rischia di chiudere un occhio su comportamenti scorretti che possono danneggiare l’ambiente e la società. Numerosi scandali lo dimostrano: l’assenza di integrità interna, spesso, è legata anche a scelte irresponsabili verso l’esterno.

Qual è il consiglio più importante da dare a un leader che desidera migliorare la cultura della propria azienda?

Il mio primo suggerimento è quello di dedicare del tempo alla riflessione personale: domandarsi quali siano i propri valori, quali azioni quotidiane comunichino o contraddicano quegli stessi valori. Spesso i leader, presi da mille impegni, non si fermano a riflettere sul tipo di impatto che stanno avendo sul loro team.

Il secondo step è coinvolgere il gruppo in momenti ricorrenti di riflessione condivisa: “Abbiamo agito in linea con i nostri valori?”, “Dove siamo andati fuori strada?”, “Quali criticità potremmo affrontare meglio?”. Se non si creano questi spazi di dialogo, la cultura organizzativa resta solo una serie di principi astratti.

Da ultimo, credo sia fondamentale praticare i valori, non soltanto predicarli. Questo vuol dire allenare le persone a risolvere dilemmi etici, invitare feedback continui e mettere in agenda – per esempio, mensilmente o trimestralmente – discussioni su come tradurre i valori in decisioni quotidiane. È un lavoro di squadra, che vede la collaborazione tra leadership, HR, funzione compliance, e chiunque abbia un ruolo di responsabilità.

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