I modelli organizzativi 231 sempre più centrali in una prospettiva di compliance integrata

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Quali sono le relazioni tra il nuovo Codice della Crisi di Impresa e il Modello 231? Sono maturi i tempi per la creazione di Modelli Organizzativi di Compliance sempre più integrati?

Il D.Lgs. 12.1.2019 n.14, corretto dal successivo D.Lgs. 147/2020, ha approvato il codice della crisi di impresa e della insolvenza (“CCII”), che entra in vigore il 16.5.2022, salvo alcuni articoli, già in vigore dal 2019 ed il titolo II della Parte prima che entrerà in vigore il 31/12/2023.

Tra gli articoli già in vigore è particolarmente interessante l’art. 375 che ha apportato modifiche all’art. 2086 codice civile aggiungendo al primo il seguente secondo comma: «L’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione

Marino Sciascia (Segretario Lab4Compliance)

tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale». I compliance professional, ed in particolar modo quelli coinvolti nella gestione della compliance 231/2001, non possono che porsi la domanda: “ci saranno impatti e/o necessità di coordinamento con il Modello 231?”

Aggiungiamo che il capo I del Titolo II CCII, che entrerà in vigore il 31/12/2023, introduce, con l’art. 12, i c.d. strumenti di allerta, costituiti da obblighi di segnalazione posti (art. 14), a carico degli organi di controllo societari e finalizzati, unitamente agli obblighi organizzativi posti a carico dell’imprenditore dal codice civile, alla tempestiva rilevazione degli indizi di crisi dell’impresa ed alla sollecita adozione delle misure più idonee alla sua composizione.

Gli organi di controllo societari avranno dunque l’obbligo di segnalare all’organo amministrativo l’esistenza di fondati indizi della crisi disciplinati dall’art.13, secondo il quale gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell’impresa e dell’attività imprenditoriale svolta dal debitore, costituiscono indicatori di crisi, concretamente rilevabili attraverso appositi indici, elaborati dal Consiglio Nazionale Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili (CNDCEC), che diano evidenza della non sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi e dell’assenza di prospettive di continuità aziendale per l’esercizio in corso o, quando la durata residua dell’esercizio al momento della valutazione è inferiore a sei mesi, nei sei mesi successivi. Costituiscono altresì indicatori di crisi ritardi nei pagamenti reiterati e significativi.

Il concetto di “indicatori”, fissati dal legislatore, quindi, ben più ampio del concetto di “indici” oggetto di elaborazione da parte del CNDCEC, non può che destare l’attenzione del compliance professional, da sempre attento alla individuazione, gestione e monitoraggio dei Key Risk Indicator – KRI (o Key Compliance Indicator – KCI).

Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, all’attività sensibile “Gestione dei Crediti”, da sempre individuata nei Modelli 231 come “a rischio” relativamente alla realizzazione di reati di corruzione, la cui vigilanza e monitoraggio, anche attraverso l’individuazione di appositi KRI da veicolare agli organi di controllo interessati, sarebbe certamente un valido indicatore anche ai fini di quanto previsto dal Titolo II Capo del CCII.

A questo punto nasce spontanea l’osservazione che ci troviamo di fronte ad una forte avanzata nel sistema giuridico di impresa della centralità dei Modelli di Compliance, e se tale ulteriore spinta propulsiva data dal CCII non debba indurci a riflettere sul fatto che siano oramai maturi i tempi di una integrazione dei Modelli di Compliance, “ordinati” o “consigliati” negli ultimi venti anni dal legislatore.

E’ altrettanto chiaro, inoltre, che per iniziare a districare la matassa dei Modelli Organizzativi, si debba partire dal Modello 231, data la sua centralità e pervasività nella vita aziendale (non esiste processo aziendale che non sia considerato “a rischio 231”, in via diretta o indiretta), ma anche dato che l’esperienza della sua applicazione pratica oramai ventennale può offrire driver metodologici e operativi per l’avvio dell’integrazione tanto agognata, soprattutto dal business, spesso disorientato davanti al proliferare di modelli, standard, procedure e conseguenti attività.

Pubblicazione tratta da lab4compliance.com

 

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