In un contesto geopolitico sempre più instabile, tra guerre, escalation normative e nuove sensibilità, le sanzioni internazionali sono uscite dai libri di diritto per entrare nella quotidianità delle imprese. A guidare le aziende in questo terreno scivoloso ci sono figure come Giulia Levi, Export Control & Compliance Manager del gruppo Prysmian, che da anni si muove tra clausole, controparti critiche e blocchi informatici, cercando il giusto equilibrio tra rigore normativo e apertura al business.
«Il mio interesse per le sanzioni nasce all’università, con una tesi sulle sanzioni economiche contro l’Iran», racconta Levi. «Era un tema ancora marginale, soprattutto rispetto alla tradizione statunitense, dove queste norme esistono dagli anni Sessanta. Ma mi affascinava l’impatto che le decisioni sovranazionali potevano avere sulla contrattualistica tra privati».
Dopo esperienze in studi legali specializzati in diritto commerciale internazionale, Levi ha seguito clienti italiani e stranieri in mercati critici, contribuendo alla costruzione di strutture di export compliance, quando erano ancora una rarità. Analisi merceologiche, investigazioni su controparti, redazione di clausole contrattuali specifiche e valutazione dei rischi geopolitici.
Dopo diversi anni nel settore legale, Levi ha sentito il bisogno di modificare il proprio sguardo. «A un certo punto ho voluto passare dall’altra parte della barricata», spiega. «Volevo vivere la compliance dall’interno, supportando in prima persona le funzioni di business impattate da queste normative». È così che Levi approda in Prysmian, multinazionale italiana esposta sui mercati di tutto il mondo: «Abbiamo progetti su scala globale, ed è quindi importante svolgere due diligence approfondite alla luce delle normative sanzionatorie e di export control».
Un lavoro che non è censura, ma orientamento
«Il mio non è un ruolo da censore. Mi vedo più come una bussola per il business», spiega Levi. Il suo compito è aiutare le funzioni operative a navigare tra norme, restrizioni e aggiornamenti continui, senza bloccare il business.
Per garantire il rispetto di queste normative, sono stati implementati diversi livelli di controllo merceologico, soggettivo e geografico attraverso blocchi informatici che impediscono l’effettuazione di operazioni commerciali in violazione delle normative rilevanti, approfondimenti documentali delle operazioni più sensibili dal punto di vista sanzionatorio e utilizzo di software di screening della struttura proprietaria e di controllo delle controparti.
Per quanto riguarda i controlli soggettivi, ogni transazione viene vagliata da un software di screening che confronta i nomi delle controparti con i nominativi dei soggetti inseriti nelle blacklist internazionali. In caso di sospetto, si procede con un approfondimento. «Spesso si tratta di falsi positivi, ma se il dubbio persiste si attiva la funzione di trade compliance per un’analisi approfondita».
Perché rispettare le sanzioni? Non si tratta solo di reputazione
Le implicazioni non sono solo operative. In Italia e in altri Stati europei, violare le norme sulle sanzioni internazionali e sul dual use ha potenzialmente conseguenze penali (in Italia, il D.lgs. 221/2017 prevede, tra le pene, anche la reclusione fino a sei anni). E la normativa si trova in una fase di evoluzione: con il recepimento della Direttiva UE 1226/2024, le pene per la violazione delle sanzioni verranno ulteriormente inasprite, con sanzioni pecuniarie che potranno anche essere calcolate su una percentuale del fatturato globale della persona giuridica coinvolta.
E poi ci sono gli Stati Uniti. Anche in assenza di nesso tra un’operazione commerciale e la giurisdizione statunitense, le sanzioni secondarie USA possono colpire duramente. Ad esempio: una transazione tra un’azienda italiana e una iraniana può violare i criteri di Washington, pur non essendo in alcun modo collegata agli Stati Uniti, né in termini di valuta contrattuale né in termini di soggetti coinvolti nell’operazione commerciale. «Finire in una blacklist statunitense può tradursi nella messa a rischio della continuità aziendale, in quanto la maggioranza degli operatori economici globali – banche, fornitori, clienti – rifiuterà di avere a che fare con un soggetto sanzionato dagli Stati Uniti». Il rischio, dunque, non è solo reputazionale.
Il punto fermo: servono competenze specifiche
Un principio guida: «La trade compliance non si improvvisa. È una materia rientrante nell’alveo della compliance, ma distinta dall’anticorruzione o dall’antiriciclaggio. Serve formazione specifica e un team preparato, soprattutto in un contesto geopolitico in costante evoluzione».
Il punto chiave, secondo Levi, è il fattore umano. Perché le norme si possono scrivere e leggere, i software si possono installare e utilizzare, ma «per non avere una trade compliance zoppa, è importante che si crei una sinergia tra compliance e le funzioni aziendali impattate dalle normative, come le funzioni di business, finance e R&D». È per questo che organizza regolarmente sessioni di training con le filiali del gruppo in tutto il mondo, incluse quelle situate in regioni extra-europee (dalla Cina al Sud America).
L’Unione Europea, infatti, chiede oggi alle aziende europee di effettuare ogni sforzo affinché anche le loro controllate estere rispettino le sanzioni. Un compito delicato, che potrebbe essere accolto con scetticismo dagli operatori extra-UE. «Ma se il messaggio passa, e l’interlocutore agisce in buona fede, questi diventerà un prezioso alleato, che tornerà da te ogni volta che percepirà che una data attività potrebbe essere rischiosa dal punto di vista delle sanzioni economiche internazionali e dell’export control».
di Matteo Rizzi