Lo vogliamo un diritto di veto?

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Laddove una specifica iniziativa e/o controparte debbano essere sottoposti a una valutazione preventiva della Compliance, il relativo giudizio finale può (o deve) poi essere “bloccante”? In altre parole, in caso di riscontrate criticità, la Compliance può porre un veto a procedere?

Sgombriamo il campo da un possibile equivoco: ci sono situazioni in cui tale “diritto di veto” non viene nemmeno in rilievo, come nel caso in cui un’operazione superi specifici limiti di valore formalizzati all’interno di procedure interne (si pensi ad un omaggio superiore a X, laddove X sia il limite espresso); o quando il deal comporti situazioni di oggettiva contrarietà a normative esterne (si pensi ad una transazione verso un paese oggetto di sanzioni internazionali o ancora a un cartello sui prezzi con un concorrente). In questi casi è evidente come il divieto non dipenda da un giudizio o da una valutazione della Compliance ma dalla semplice applicazione di una normativa esterna o interna.

Tuttavia il più delle volte l’operazione che viene sottoposta a valutazione preliminare si colloca in una “zona grigia” e tale valutazione non può che comporsi di giudizi di opportunità e/o probabilistici e potenziali. Pensiamo al caso di una controparte con un rischio reputazionale o al caso dell’assunzione di un familiare di un politico locale o alla gestione di un possibile conflitto di interessi. In questi casi, dunque, che valore può assumere il feedback della Compliance?

Da un punto di vista di disegno, le possibili alternative sono:

  • che la Compliance abbia un ruolo consultivo e in questo caso la sua valutazione concorrerà, unitamente alle eventuali ulteriori valutazioni di altra natura (e.g. commerciale, finanziaria, strategica etc.), a determinare una decisione consapevole e approfondita da parte del business;
  • che vi sia (anche) un ruolo autorizzativo, nel qual caso per chiudere un’operazione sarà necessaria una sorta di green light, mentre una red light sarebbe ostativa alla finalizzazione.

Si tratta di una scelta di pura opportunità aziendale, senza dover scomodare best practice, requisiti di buona governance o ancora il posizionamento organizzativo interno della Compliance. L’importante è che, riprendendo la nuova ISO37301, la funzione Compliance sia fornita di “authority, status and independence” e tali requisiti non vengono messi in discussione che si opti per il caso (i) o per il (ii) di cui sopra.

Per identificare una soluzione, la tematica andrebbe portata sul piano della responsabilizzazione. L’esistenza del potere di veto comporta il rischio di una tendenziale de-responsabilizzazione delle funzioni promotrici dell’iniziativa di business che sono così portate a “scaricare” sulla Compliance la paternità del giudizio finale in materia di profili di compliance/etici/reputazionali, potenzialmente disinteressandosene. Viceversa, un solo ruolo consultivo consente una maggiore responsabilizzazione delle linee di business che vengono direttamente coinvolte nell’intero processo valutativo oltre che supportate e accompagnate nel comprendere tutti gli aspetti di un’iniziativa incluse le possibili conseguenze in termini di rischi di compliance.

I benefici sono evidenti: si crea una generale cultura di compliance in grado di generare nelle stesse linee di business consapevolezza e sensibilità per le nostre tematiche; inoltre si instaura un rapporto di integrazione e sinergia tra business e Compliance la quale, in caso di diritto di veto, corre invece il rischio di diventare un mero “censore”.

D’altronde, quale tra i seguenti due scenari preferireste: “la Compliance non ha autorizzato il deal” oppure “condividendo le valutazioni della Compliance, ho deciso di non procedere al deal?

Pubblicazione tratta da lab4compliance.com

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