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Ogliari (Marsh McLennan): trasformare la compliance in una cultura viva, tra regole e buon senso

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In un gruppo multinazionale che opera tra consulenza strategica, brokeraggio assicurativo e servizi professionali, la funzione compliance non è un presidio formale, ma un asse portante del business. È una lente attraverso cui leggere la trasformazione, un linguaggio condiviso tra headquarter e  sedi locali, una guida per gestire la crescente complessità normativa. In Marsh McLennan — presente in oltre 130 paesi con marchi come Marsh, Mercer, Guy Carpenter e Oliver Wyman — questa funzione assume una forma matura, integrata, eppure adattabile ai contesti locali.

A guidarla per l’Italia e l’area East Mediterranean (che include Grecia, Cipro, Turchia e Israele) è Valentina Ogliari, Chief Counsel, figura di riferimento per legal, compliance e public affairs. «La compliance per me non è un insieme di regole da far rispettare, ma un linguaggio condiviso, un mindset operativo, una responsabilità distribuita», racconta a ComplianceDesign.it. È una definizione che dice molto: in Marsh, la funzione non presidia solo il rischio, ma abita i processi, accompagna le decisioni e si esprime in modo semplice, concreto, vicino al business.

Una funzione integrata: legal, compliance e public affairs in una sola struttura

Valentina Ogliari coordina il team LCPA (Legal, Compliance & Public Affairs), che in Italia presidia le attività di Marsh e Mercer. Due entità con missioni diverse ma una forte componente regolata: brokeraggio assicurativo per la prima, consulenza per la seconda. «In Italia, la normativa sugli intermediari assicurativi consente  che la funzione compliance sia parte della struttura organizzativa legale», spiega Ogliari. «Nel nostro caso, esiste un compliance officer nominato, che fa parte del team LCPA ma la funzione è esercitata in modo corale ».

Questo approccio integrato consente una maggiore fluidità e reattività. «La separazione tra legal e compliance esiste, ma non è rigida. Ci confrontiamo quotidianamente, condividiamo informazioni, affrontiamo i temi insieme. Il legal interpreta le norme, la compliance le traduce in processi praticabili».

Un percorso che parte dalla regolamentazione, ma arriva al cambiamento

Il background di Valentina Ogliari è quello del giurista d’impresa, ma con un orientamento forte al business. «Ho iniziato in uno studio specializzato in regolamentazione assicurativa. Erano i primi anni Duemila, e si cominciava appena a parlare di compliance. Spesso in termini astratti, legati all’etica o alla 231. Ma nelle assicurazioni si avvertiva già il bisogno di dare struttura interna alla gestione del rischio normativo».

Nel tempo, è diventato chiaro che la compliance non è una replica della funzione legale, ma un’attività centrata sull’implementazione concreta dei principi: «Il legale interpreta la norma e dà le linee guida. La compliance, invece, traduce questi principi in azioni quotidiane, attraverso policy e procedure, fino a renderli praticabili per tutto lo staff».

Un lavoro che richiede rigore, ma anche elasticità. «Spesso la differenza si nota nella risposta alle domande: il legale dice “no, non si può fare” oppure “si può fare se…”. La compliance, invece, si chiede “come posso rendere questo processo conforme?”. Sono due approcci complementari. Il legal delimita, la compliance realizza».

La compliance way” di Marsh: principi chiari, buon senso operativo, formazione continua

L’appartenenza a un gruppo statunitense, sottolinea Valentina Ogliari, si riflette in una cultura della compliance molto pragmatica. «Il nostro codice etico si chiama The Greater Good. Non è un manifesto astratto, ma una guida pratica: cosa fare, cosa non fare, quali domande porsi per capire se un comportamento è coerente con i nostri valori».

Il punto di forza sta nella semplicità. «Se stai valutando una sponsorizzazione, chiediti: mi sentirei a disagio se ne venisse data pubblicità? L’importo è coerente con il valore della prestazione? È un approccio basato sul buon senso, ma sistematizzato».

Accanto a questo, grande investimento sulla formazione continua. «Non è solo un obbligo normativo. È parte della nostra identità. Facciamo formazione continua, tracciata e personalizzata. Webinar, sessioni in presenza frontali, workshop locali: ogni strumento è pensato per tradurre i principi globalinella realtà specifica del mercato in cui operiamo».

Soft law e complessità: la vera sfida è nella stratificazione normativa

Il quadro normativo in cui opera il settore assicurativo è sempre più stratificato. «Ci muoviamo tra direttive europee, norme locali, provvedimenti delle authority, linee guida. Molto spesso siamo in presenza di soft law, cioè regole non vincolanti formalmente ma che, nei fatti, condizionano fortemente le prassi».

Valentina Ogliari sottolinea come questa sovrapposizione crei problemi sia verticali (dal legislatore europeo alle autorità locali) che orizzontali (tra Paesi con approcci diversi). «Lavorando su più giurisdizioni, dobbiamo conciliare modelli più prescrittivi con altri più interpretabili. La pressione regolatoria è costante, ovunque».

Accanto a questo, le grandi normative trasversali europee: CSRD, NIS2, DORA. «La regolazione europea arriva prima di tutto e spesso ispira i Regolatori di altre aree del mondo. Ma questo “normare prima di fare” può anche diventare un limite, se non è accompagnato da capacità realizzativa. Al contrario, in altri Paesi si tende a fare prima, e normare poi. Due modelli, nessuno perfetto».

Tra i temi caldi che impegnano i team di compliance oggi, Valentina Ogliari cita senza esitazioni le sanzioni internazionali: «In un contesto geopolitico così teso, richiedono un aggiornamento continuo e un investimento specifico in competenze. Il gruppo ha rafforzato le squadre sia a livello globale che europeo per fare fronte alle continue evoluzioni legate alla tematica».

Oltre la norma: il compliance officer ideale è un ponte tra le funzioni

Cosa serve oggi per fare davvero compliance? Per Valentina Ogliari, serve un profilo ibrido: «Non basta essere giuristi. Serve conoscere l’organizzazione e i processi, saper leggere le resistenze. In parte sei un legale, in parte un auditor, in parte un change manager. Se ti limiti alle procedure, vieni percepito come un controllore. Se sei troppo giuridico, rischi di duplicare il legal».

La chiave è costruire un’identità propria: «Una compliance efficace si distingue perché sa ascoltare, tradurre, accompagnare. È capace di portare rigore senza irrigidire. Di spiegare senza semplificare troppo. Di formare senza giudicare».

La cultura della responsabilità quotidiana

L’ultima parola è sul senso profondo della funzione. «Per me, la compliance è una forma elegante di buon senso. Aiuta l’azienda a evitare improvvisazioni, a fare scelte coerenti, a costruire una cultura della responsabilità che non ha bisogno di essere gridata, ma praticata».

In un mondo iper-regolato, quello che fa davvero la differenza non è la perfezione formale, ma la capacità di creare consapevolezza. «L’errore è tollerabile, se è motivato. L’improvvisazione no. La compliance serve proprio a questo: dare forma a una cultura della responsabilità. Una cultura che non ha bisogno di essere gridata, ma praticata ogni giorno».

di Matteo Rizzi

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