Dietro ogni scandalo aziendale c’è una storia. Ma raramente è quella che immaginiamo. Secondo Guido Palazzo, professore di Business Ethics all’Università di Losanna e autore di “The Dark Pattern: The Hidden Dynamics of Corporate Scandals”, la narrazione più diffusa, quella delle “mele marce” in cima all’organizzazione, è comoda, ma fuorviante.
In realtà, ciò che spesso porta al disastro è qualcosa di molto più banale, e molto più pericoloso: un contesto organizzativo che rende normale ciò che dovrebbe essere inaccettabile. “È un libro che parla di persone buone che fanno cose sbagliate, non di persone cattive che fanno cose cattive”. E questa è la vera sfida etica del nostro tempo, spiega a ComplianceDesign.it.
Quando un’azienda finisce sotto i riflettori per comportamenti illeciti, la risposta mediatica è quasi sempre la stessa: individuare un colpevole ben visibile. Meglio se un amministratore delegato, un manager senza scrupoli. “È una narrazione hollywoodiana. C’è il villain, il cattivo. C’è l’eroe che lo denuncia. Il male viene sconfitto”. Ma la realtà non funziona così. In molti casi, migliaia di persone partecipano a un comportamento scorretto senza rendersene pienamente conto.
Palazzo cita il caso Wells Fargo, la più grande banca al dettaglio degli Stati Uniti, dove più di 100 mila dipendenti hanno aperto conti bancari non richiesti, usando firme elettroniche dei clienti. Un crimine sistemico, e non l’opera di pochi corrotti. “Davvero vogliamo credere che un’intera banca abbia assunto 100 mila criminali? È assurdo. Piuttosto, dobbiamo chiederci: cosa nel contesto aziendale ha portato così tante persone a infrangere la legge?”.
Se il problema è così diffuso, perché non lo vediamo? Perché continuiamo a pensare che “non capiterà mai a noi”? Secondo Palazzo, due meccanismi cognitivi lo spiegano perfettamente. Il primo è il bias dell’attribuzione al carattere: tendiamo a credere che i comportamenti sbagliati derivino dal fatto che chi li compie è una “persona cattiva”. Il secondo è il bias della superiorità morale: la maggior parte delle persone crede di essere più etica della media. “Se metti insieme questi due bias, ottieni una convinzione rassicurante: le cose sbagliate le fanno le persone sbagliate, e io sono una persona buona, quindi non mi riguarda”. Ma è proprio questo che ci impedisce di imparare dagli errori. E le organizzazioni fanno lo stesso. Credono che i problemi riguardino sempre “gli altri”. Fino a quando succede anche a loro.
Cecità etica e normalizzazione del rischio
Uno dei concetti chiave introdotti da Palazzo è quello di ethical blindness, la cecità etica. Non nasce da un gesto eclatante, ma da una serie di piccoli compromessi che, nel tempo, erodono la percezione morale. “C’è un ex trader di Enron che lo dice chiaramente: la prima volta che inganni un cliente, puzza. La seconda, un po’ meno. Poi non senti più nulla. È diventato normale”. Questa desensibilizzazione è un meccanismo di autodifesa psicologica: quando le nostre azioni sono in conflitto con i nostri valori, il cervello cerca un modo per ridurre il disagio. Razionalizziamo, ci raccontiamo storie: “tutti lo fanno”, “è ingiusto quello che subisco”, “lo faccio per l’azienda”.
Così facendo, normalizziamo il comportamento scorretto, fino al punto in cui non lo percepiamo più come tale. E quando arriva la sanzione, spesso anni dopo, chi viene colpito è sinceramente scioccato. “Molti manager arrestati per crimini finanziari restano increduli. Dicono: questa non è la persona che sono. Ma intanto l’hanno fatto”.
In “Dark Patterns”, Palazzo e il suo coautore Ulrich Hoffrage hanno identificato nove elementi ricorrenti negli scandali aziendali legati alla cultura organizzativa. Tra questi, spicca il clima di paura. Manager autoritari, umiliazioni pubbliche, minacce. “Un articolo definiva il clima interno di Volkswagen come ‘la Corea del Nord senza campi di lavoro’. Un dipendente di Wells Fargo ha dichiarato che la guerra in Iraq era meglio del lavoro in banca. Questo ti fa capire che tipo di pressione vivono le persone”.
Un altro fattore è la pressione a ottenere risultati oggettivamente irrealistici. Gli ingegneri Volkswagen dovevano sviluppare una tecnologia anti-smog che non era ancora tecnicamente realizzabile. I venditori di Wells Fargo dovevano aprire otto nuovi conti al giorno, un target fuori scala. “E se non puoi dire che l’obiettivo è impossibile, perché altrimenti sei debole, allora falsifichi. Ti inventi qualcosa per sopravvivere”.
C’è poi il tema delle regole ambigue. In molte aziende esistono due mondi paralleli: quello delle regole ufficiali, e quello delle prassi tollerate. “Chi aggira le regole ottiene bonus, promozioni, riconoscimento. Chi le rispetta viene escluso. Il messaggio che passa è: puoi violare le regole, se sei bravo a farlo”. In questo spazio si crea una zona grigia, dove si comincia a giocare con i limiti. Come nel caso Dieselgate: molte case automobilistiche facevano piccoli aggiustamenti legali per migliorare le emissioni nei test. Volkswagen è andata oltre, manipolando il software. “È quel passo in più che fa la differenza. Ma quando tutti si muovono nella zona grigia, diventa difficile capire quando l’hai oltrepassata”.
L’AI come nuovo vettore di rischio culturale
Con l’arrivo dell’intelligenza artificiale, il terreno diventa ancora più scivoloso. “Da un lato, l’AI rende più facile barare. Puoi creare una ricevuta falsa in modo credibile, e nessuno se ne accorge. Dall’altro lato, le aziende tech che sviluppano AI mostrano già oggi tutti i tratti del dark pattern”. Leader carismatici e inaccessibili, promesse grandiose, rifiuto delle regole e delle autorità, senso di eccezionalismo morale. “È lo stesso copione che abbiamo già visto in Enron, in Theranos. Il rischio è che il prossimo grande scandalo venga proprio da lì”.
Eppure, Palazzo non è pessimista. “Questi scandali sono ancora l’eccezione, non la regola. E noi, pur vulnerabili, non siamo robot. Possiamo dire no”. Per cambiare rotta, servono due elementi fondamentali. Il primo è il rispetto: trattare le persone con dignità riduce drasticamente il rischio di comportamenti devianti. Il dolore umano che accompagna questi scandali spesso non si vede nei titoli, ma c’è: paura, burnout, suicidi. E può essere evitato. Il secondo è il coraggio di parlare. “Chi esegue gli ordini è spesso chi finisce per pagare. È necessario creare contesti in cui parlare sia possibile, sicuro, sostenuto”.
E la compliance? Deve imparare a guardare prima. “Oggi la compliance si concentra sul legale. Ma i segnali etici e culturali emergono molto prima. Se non analizzi i comportamenti, i leader, gli incentivi, non vedrai mai il problema finché non esplode”. Per essere davvero efficace, la compliance deve abbracciare la psicologia, la cultura e l’etica. Deve saper leggere il clima interno, ascoltare i segnali deboli, formare i manager a riconoscere l’ambiguità e affrontarla. “La maggior parte dei compliance officer oggi sono giuristi. Serve anche questo, ma serve molto di più. Serve capacità di leggere l’umano”.

