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Rule of Law: la prosperità ama le regole… ma non basta

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Sull’asse delle ascisse, l’indice di governance; su quello delle ordinate, il PIL pro capite. Ogni puntino rappresenta un Paese, diviso tra economie sviluppate (in rosso) e in via di sviluppo (in blu). Il messaggio è chiaro: dove le regole sono forti e rispettate, la prosperità segue.

Ma non è solo una questione di crescita economica. La Rule of Law – ovvero la certezza del diritto, l’indipendenza della magistratura, la trasparenza delle istituzioni – è anche il primo scudo contro la corruzione. Perché dove le regole sono chiare, applicate in modo imparziale e prevedibile, c’è meno spazio per l’arbitrio, per i favoritismi, per le scorciatoie.

Il problema? Ancora troppi sistemi fingono di avere regole, ma non le applicano davvero. O le applicano “a fasi alterne”, a seconda del potere di chi le infrange. Così la Rule of Law si svuota di senso, e la corruzione si insinua dove trova varchi: nella discrezionalità, nell’opacità, nella complicità silenziosa di chi guarda dall’altra parte.

E attenzione: la Rule of Law può anche essere usata male. Perché se il potere si concentra troppo, anche le regole possono diventare strumenti per proteggere interessi personali (o – peggio – gli interessi di una casta), consolidare rendite, emarginare il dissenso. È il paradosso della legalità deviata: formalmente in regola, sostanzialmente tossica. Non più garanzia per tutti, ma arma per pochi.

È lì che la governance deve fare il suo mestiere: garantire l’equilibrio tra poteri, impedire che chi comanda possa scrivere (o piegare) le regole a proprio vantaggio.

Questa logica vale anche nelle aziende. Un CEO forte non è quello che accentrando tutto riesce a controllare ogni cosa, ma quello che sa distribuire le deleghe in modo equilibrato, evitando gangli di potere, conflitti di interesse e assicurando la giusta segregazione delle responsabilità: chi decide non può controllarsi da solo. È un principio base, eppure spesso dimenticato.

Un’organizzazione sana ha bisogno, accanto ai vertici delle operations e delle funzioni di business, anche di un capo della governance e di un sistema di controllo interno autorevole, strutturato, in grado di tener testa alle “performance”. Perché quando il risultato diventa un’ossessione, il rischio è che qualcuno cominci a sacrificare le regole sull’altare dell’obiettivo. E lì serve qualcuno che dica: “fermi tutti, così non va”. E non deve essere percepito come un freno, ma come una garanzia di sostenibilità.

E allora sì, servono regole. Ma servono anche responsabilità e controlli rigorosi, smart e snelli.

La responsabilità non si impone per decreto. Nasce da una cultura sana, da valori come integrità ed etica. Dove questi mancano, le regole diventano solo un elenco di divieti da aggirare. E allora la Rule of Law perde autorevolezza, peso, credibilità.

Il controllo, invece, deve essere capace di leggere, anticipare, correggere. Non solo sanzionare. Deve essere parte del gioco, non il cartellino rosso alla fine della partita. Perché quando la responsabilità è sana, anche il controllo diventa un alleato, non un ostacolo.

La Rule of Law non è solo rispetto delle regole. È architettura di poteri, cultura organizzativa e capacità di tenere insieme performance e integrità.

Il grafico lo dice chiaramente: la prosperità segue chi rispetta le regole. Ma la vera sfida è farle rispettare anche da chi le scrive. E da chi il potere ce l’ha.

R.I.T.A.

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