Il documento della Banca d’Italia di Giuseppe Siani mostra con chiarezza che i problemi più seri emergono dove manca un vero tessuto culturale capace di attribuire valore alla compliance. La tecnologia conta, le norme contano, ma senza una cultura del rischio diffusa – dal board al front office – ogni modello di controllo resta fragile. In questo contesto i professionisti della compliance diventano qualcosa di più che esperti tecnici: diventano veri e propri designer culturali. Sono loro a favorire il dialogo tra le funzioni, a interpretare il contesto, a portare consapevolezza nelle scelte e a orientare i comportamenti, rendendo legittime e solide le decisioni dell’organizzazione.
L’intervento di Siani evidenzia come molte criticità non derivino dalla mancanza di regole, bensì dalla mancanza di visione. L’esternalizzazione, per esempio, può funzionare solo se la governance interna è forte; altrimenti si rischiano conflitti di interesse, soluzioni standard inadatte al business e la perdita di una logica realmente risk-based. Anche la gestione dei rischi soffre quando le funzioni non dialogano: si creano sovrapposizioni, lacune e valutazioni distorte, soprattutto quando si separano rischi che in realtà sono strettamente interconnessi. A tutto questo si aggiunge una data governance spesso insufficiente.
Un ulteriore elemento critico riguarda le risorse: competenze non adeguate o organici troppo ridotti indeboliscono indipendenza e qualità dei controlli, mentre talvolta la funzione Compliance viene caricata di attività operative che ne snaturano il ruolo. L’esito è sempre lo stesso: quando la compliance non è riconosciuta come un partner strategico, i presidi diventano fragili o inefficaci.
L’intelligenza artificiale e gli strumenti avanzati possono certamente rivoluzionare i controlli, ma il loro valore dipende dal capitale umano e dalla cultura dell’organizzazione. Senza competenze, senso critico e consapevolezza del rischio, anche la tecnologia più sofisticata produce risultati distorti. La compliance del futuro, per questo, non è automatizzata: è intelligente, nel senso più umano del termine. L’esperienza della Vigilanza lo conferma: le realtà più solide sono quelle in cui il board è realmente coinvolto, investe, si informa e integra la conformità nelle decisioni strategiche.
In questo quadro il ruolo dei professionisti della compliance cambia profondamente. Non sono più solo esperti normativi o controllori, ma architetti dell’equilibrio tra innovazione, rischio e fiducia. Una funzione capace di unire rigore e flessibilità, portando la cultura del rischio nel cuore del processo decisionale.
Se le imprese vogliono essere davvero resilienti, devono ripensare la compliance come un’infrastruttura culturale oltre che tecnica: un ecosistema che tutela la clientela, rafforza la reputazione, rende credibile l’innovazione e permette di affrontare le incertezze del futuro con responsabilità e visione. È qui che si gioca la sfida più importante: diventare protagonisti della cultura organizzativa del domani.

